Franesco Guerrera per La Stampa
In America, chi sbaglia o imbroglia paga. Nei poster, lo Zio Sam sembra una figura benevola, ma è un giudice implacabile di aziende che cercano di aggirare la legge.
Basta chiederlo a Martin Winterkorn, che da ieri deve aggiungere il prefisso «ex» al suo titolo di amministratore delegato della Volkswagen. O agli azionisti della casa automobilistica tedesca, che hanno perso un terzo del loro investimento nei tre giorni in cui la VW è stata nel mirino delle autorità americane.
Lo scandalo del «DieselGate» ha un solo colpevole: la Volkswagen (anche se Winterkorn ha detto di non saperne nulla). Inventarsi un software segreto per passare i test ambientali Usa anche se i Maggiolini, le Jetta e le Passat inquinano più del dovuto è un’azione esecrabile che potrebbe avere ripercussioni enormi sul futuro delle auto diesel negli Stati Uniti.
Ma la risposta del governo americano – veloce, severa e senza compromessi – è un promemoria importante per tutte le aziende che producono e vendono negli Stati Uniti. E’ un paradosso che dirigenti, azionisti e lavoratori non devono mai dimenticare: il capitalismo Usa adora il libero mercato, ma punisce severamente deviazioni dalle norme etiche, professionali e legali.
La Volkswagen è stata colpita da un ciclone politico-regolamentare che abbiamo visto e rivisto nell’ultimo decennio: prima l’accusa – in questo caso da un gruppo di ambientalisti; poi l’indagine da parte di autorità statali e federali; e alla fine la minaccia di ammende altissime – il governo Obama ha detto che VW potrebbe pagare sino a 18 miliardi di dollari.
La trama è stata più o meno la stessa per la British Petroleum dopo il disastro umano e ambientale causato dall’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon; o per le banche di Wall Street per il loro ruolo nella crisi finanziaria; o per la Toyota e la Chrysler per i difetti tecnici delle proprie automobili.
Le dimissioni di Winterkorn non bastano. La Volkswagen pagherà quasi sicuramente miliardi di dollari e sarà costretta a cambiamenti profondi a livello tecnico, industriale e organizzativo.
Attenzione, però, a fare di «DieselGate» un evento straordinario. Il patto non implicito tra il governo Usa e le società è: vi lasciamo in pace, anzi, vi aiutiamo con sgravi fiscali, regole leggere e poca interferenza, ma quando fate un errore vi schiacciamo come un insetto.
E’ un sistema che non piace a tutti. Chi lo critica dice che conferisce ai regolatori e al governo troppi poteri, dando ai politici molto spazio per strumentalizzare vicende aziendali per fini elettorali. Mi ricordo bene la faccia pallida di un alto dirigente della Jp Morgan due anni fa quando il ministero della Giustizia aveva detto alla banca che rischiava accuse penali di natura criminale. «Se lo fanno, siamo finiti», mi ha detto. «Non abbiamo scelta: dobbiamo pagare qualsiasi ammenda ci dicano».
Due settimane più tardi, Jp Morgan pagò miliardi di dollari, un record per una banca americana. Per gli investitori di Wall Street, il sistema non funziona bene perché a pagare sono sempre le aziende, e quindi gli azionisti. Nel caso della VW, il capo ha perso il posto di lavoro, ma i 6 miliardi e mezzo di euro che l’azienda ha messo da parte per ammende e casi legali provengono dai bilanci societari. D’altra parte, la sinistra dice che le punizioni non sono dure abbastanza. La grande critica del governo Obama tra i benpensanti democratici è di non aver messo nessuno dei capi di Wall Street in prigione dopo la crisi del 2008-2009.
La prassi americana è molto diversa dal sistema di regolamentazione europeo. Il vecchio continente è sommerso in un magma di leggi e cavilli, compromessi politico-sindacali e una relazione spesso troppo comoda tra chi regola è chi è regolato. Ieri il governo tedesco ha ammesso che sapeva già a luglio del software utilizzato dalla VW. Ma è toccato alle autorità Usa, dove solo il 3% delle macchine vanno a diesel, attaccare la società tedesca.
È giusto che Washington attacchi società non americane?
E’ una legittima preoccupazione che continua a creare tensioni tra il governo americano e quelli europei. La realtà è che chi vuole far parte dell’enorme ecosistema economico-finanziario americano deve rispettare le leggi del Paese. Anche quando sono dure, inappellabili e strumentalizzabili. Come mi ha detto un banchiere ieri: «Non puoi giocare a football americano con le regole del rugby».