Marco Damilano – L’Espresso
Visto ieri in azione a Bari Silvio Berlusconi dava un’impressione di forza – la piazza stracolma, la colonna sonora da crociera pop, da Renato Carosone a Julio Iglesias, il calore (e anche il sudore) meridionale che è la vera cifra del movimento del Cavaliere, altro che animal spirits del capitalismo padano – ma in realtà era molto preoccupato e si vedeva. Oratoria più moscia rispetto per esempio alla manifestazione di piazza del Popolo del 23 marzo. Battute scontate, con qualche taglio rispetto alla scaletta ripetuta mille volte. E al momento clou del discorso, quando l’uomo di Arcore ha invitato la piazza a fischiare i candidati sgraditi al Quirinale, la paura di Berlusconi si è materializzata. Aveva il volto dell’unico uomo che l’ha sconfitto due volte: Romano Prodi.
Ieri è stata la giornata del Professore. Berlusconi gli ha scatenato contro i manifestanti di Bari: «Con Prodi al Quirinale ci toccherebbe andare tutti all’estero». I 48.282 votanti on line di 5 Stelle iscritti al Movimento entro il 31 dicembre lo hanno inserito, non sappiamo con quanti voti e in quale ordine, nella top ten dei candidati da votare come presidente, insieme a Rodotà, Zagrebelsky, Bonino, Caselli, Gino Strada, Dario Fo (sembra il giudizio universale, la classifica di “Cuore” di tanti anni fa), scatenando parecchie reazioni incazzate sulla Rete. Domani sapremo chi sarà il primo dei nomi indicati: ma di certo la presenza di Prodi tra i primi dieci è una novità clamorosa che autorizza fin da adesso i parlamentari grillini a votare per il Professore dalla quarta votazione in poi (quando basta il quorum della maggioranza assoluta per essere eletti: 504 voti).
C’è una sola forza che sulla candidatura di Prodi al Quirinale (che non è un’auto-candidatura perché non risulta nessun attivismo prodiano in tal senso) non ha ancora preso posizione. Per paradosso è il partito che l’ex premier ha contribuito a fondare: il Pd. Nessuna difesa ieri rispetto agli attacchi di Berlusconi. Nessun commento rispetto ai segnali di disponibilità del movimento grillino. Niente, Bersani tace, dopo aver lasciato passare per settimane l’idea che Prodi fosse il suo candidato in pectore, il presidente che gli avrebbe ri-affidato l’incarico di formare il governo, come se fosse un nome di parte, anzi, di corrente. Muti anche i notabili più influenti, da D’Alema a Franceschini a Enrico Letta.
Solo Nichi Vendola si è ribellato. Nel Pd parlano solo alcuni liberi pensatori come il senatore Walter Tocci, intelligenza con lunga e solida militanza a sinistra, mai stato prodiano, che ieri sull’ “Unità” ha contestato la linea ufficiale del partito, la ricerca di un’intesa con il Pdl per il Quirinale: «Un presidente di garanzia non può consistere nel proteggere il vecchio mondo politico che tramonta bensì nell’aiutare il nuovo che deve ancora sorgere. Si auspica un’ampia intesa, ma curiosamente viene ricercata solo tra i partiti, dimenticando che la metà dell’elettorato non li ha votati. La pacificazione nazionale bisogna cercarla anche con chi è fuori dal gioco politico. La vera garanzia è una rottura con il passato. Una donna. Figure di garanzia come Rodotà o Zagrebelsky. Oppure Romano Prodi, rimasto vittima di atti eversivi, come le infamie di Telekom-Serbia e la compravendita di parlamentari che in altri Paesi avrebbero condotto in rovina i responsabili». E parla un uomo autorevole e rispettato come il sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci Graziano Delrio, nella complicata geografia interna del Pd incasellato tra i renziani, che si è posto un semplice dubbio che in molti in queste ore si fanno nel partito e fuori: «Non capisco i veti su Prodi».
Il veto di Berlusconi, in realtà, si capisce benissimo. Meno si comprende il silenzio del gruppo dirigente del Pd che fatica a inserire il nome del suo fondatore perfino nella rosa in cui si affollano Marini, Finocchiaro, Amato, tutte figure degnissime e nobilissime, per carità, ma incapaci di garantire quel mix di esperienza, autorevolezza e novità che Prodi incarna. Lunghissimo corso, dalla presidenza dell’Iri democristiana (da cui fu estromesso in era andreottian-craxiana. E Michele Serra compose l’ “Ode a Romano Prodi cacciato dall’Iri”) alla presidenza del Consiglio alla Commissione europea all’attuale incarico da inviato Onu in Africa. «Pragmatismo, ma anche ostinazione, orientamento empirico unito però alla cocciutaggine, bonomia non disgiunta da una efficace e selettiva cattiveria (come fu detto con un’immagine icastica, Prodi gronda bontà da tutti gli artigli)», lo raccontò in un indimenticabile ritratto Edmondo Berselli. «Ai politici, abituati ai giochi di corridoio per strappare un assessorato, offriva la sensazione irresistibile del ritmo e del rumore della modernità».
Prodi ha modernizzato l’asfittico sistema politico italiano in almeno due versanti. Ha contribuito a sprovincializzare il dibattito, è un uomo di visione internazionale curioso del mondo globalizzato, il premier dell’euro, certo, ma anche lo studioso che si illuminava a parlare della Cina e delle tigri asiatiche già alla fine degli anni Ottanta quando qui da noi pensavamo ancora a Pechino come alla città proibita delle guardie rosse di Mao. Oggi è affascinato dall’Africa, il gigantesco continente nero in risveglio economico lo entusiasma come un bambino. Ed è un politico allergico alla conservazione. In venti anni il sistema politico italiano ha offerto tre innovazioni, il berlusconismo, l’invenzione della Padania leghista e oggi la democrazia diretta di Grillo. Solo una è arrivata da sinistra: le primarie, l’Ulivo, il Partito democratico. Cambiamenti impossibili senza la testardaggine del Professore (e la genialità politica di Arturo Parisi). Senza Prodi non ci sarebbero state né le primarie né il Pd e forse oggi i post-comunisti che aspirano al governo sarebbero ridotti in una riserva indiana. Per difendere le sue convinzioni, la difesa del bipolarismo e la necessità che la scelta dei governanti sia affidata ai cittadini, ha lasciato per due volte Palazzo Chigi, in mezzo a trasformismi, compravendite di parlamentari e patti inconfessabili di ogni genere.
In più, cosa che non guasta, il Professore è un cattolico non clericale, capace di affrontare una piazza ostile come quella mobilitata contro di lui durante il Family Day, più in sintonia con un papa religioso come Francesco che con la Cei trionfante e politicizzata del cardinale Ruini. Ed è un uomo che ha esercitato un grande potere e ricopre molta influenza ma che non ha mai smarrito il carattere popolare delle sue radici emiliane.
Chi ha paura del Professore? Forse la risposta si trova oggi ancora sull’Unità nell’editoriale del direttore Claudio Sardo: «Ci sono larghe intese utili: utili al Paese. Di questi tempi è tornata a crescere un’ondata presidenzialista: i difensori della Carta del ‘48 e del sistema parlamentare hanno una ragione in più per costruire un’intesa al primo voto. Se il Capo dello Stato fosse figlio di uno scontro frontale, perché non affidare la decisione direttamente ai cittadini?». Ecco qui un’altra buona ragione, quella decisiva, per votare Prodi al Quirinale: larghe intese così percepite sono una risposta di conservazione, una barricata innalzata non a difesa della Costituzione (magari!) ma di partiti sempre più deboli e di un sistema politico che ha totalmente smarrito ogni principio d’ordine. Ne resta solo uno, lo abbiamo visto in questi anni: il presidente della Repubblica. Costretto più volte a intervenire e a smettere i panni dell’arbitro per indossare quelli, se non del giocatore, almeno dell’allenatore: colui che fa la squadra.
Se è così, se siamo già in un presidenzialismo di fatto, il capo dello Stato non può essere un personaggio di secondo livello, un figura incolore che sta bene a tutti (una donna chiamata a mascherare di nuovo l’inciucio al ribasso sarebbe la beffa più atroce), un notabile uscito dalle trattative segrete di queste ore, dai vertici e dalle rose dei nomi, riti esoterici e occulti che mal si addicono alle esigenze di trasparenza che l’elezione di un presidente richiederebbe. Partiti deboli e terrorizzati (compreso Berlusconi) si preparano a eleggere un presidente dettato dall’equilibrio del terrore. Anche Grillo ha paura: di entrare in partita, di sporcarsi le mani. Serve più che mai, invece, un presidente traghettatore, cerniera tra il vecchio e il nuovo, garante di ciò che nella Costituzione non va toccato e motore di tutto ciò che invece va cambiato, e in fretta. In grado di sfidare anche Berlusconi sul tema finora tabù della riforma costituzionale e del presidenzialismo. E capace di ascoltare quello che si muove fuori dal Palazzo, quello che si agita nella società italiana.
Siamo al match fatale, in cui si scontrano due concezioni della politica. Politica come conservazione, convergenza tra ciò che c’è nel Palazzo. E politica come ascolto, interpretazione, mediazione delle domande di cambiamento che arriva dalla società. Prodi da anni è indubbiamente minoritario nell’establishment politico (e non solo): ma forse è proprio questo che mette paura.