Claudio Cerasa – Il Foglio
All’interno della gettonatissima pellicola sull’uccisione politica del Caimano, nel Pd esistono due scuole di pensiero molto diverse che in queste ore si stanno confrontando per capire quale potrebbe essere il modo migliore per girare quell’atteso finale che il popolo del centrosinistra attende da anni: il berlusconicidio.
Se una buona parte del Pd – e in particolare quella che per decenni si è abbeverata al velenoso calice del dipietrismo che oggi sembra aver trovato nuova linfa nel corpaccione del grillismo chiodato,
sogna di regalare ai propri elettori il fotogramma di un Berlusconi che esce di scena con i ferri alle mani e una pioggia di monetine sopra la testa – c’è un’altra fetta del partito che da tempo lavora per un finale diverso, che prevede sempre l’esecuzione di Berlusconi ma che ai proiettili e le manette preferisce il fioretto e la politica.
E così, andando a leggere in controluce le parole messe sul piatto in questi giorni dai maggiori protagonisti della vita del centrosinistra, si scopre che gli unici che hanno mostrato, seppur con timidezza, una certa volontà di sfidare il capo dell’opposizione senza colpi bassi e senza tintinnii di manette sono stati senza dubbio i deputati e i senatori più vicini all’universo renziano.
Lo avrete notato: sono stati loro i primi a riconoscere che Berlusconi non ha tutti i torti quando dice che se Bersani vuole fare un governo deve dialogare con il Pdl (Matteo Renzi, 23 marzo); sono stati loro i primi a riconoscere che Napolitano non ha tutti i torti quando dice che per il paese sarebbe una sciagura andare al voto senza tentare di fare un governo con i secondi arrivati alle elezioni (Graziano Delrio, 12 marzo); sono stati loro i primi ad ammettere che una candidatura al Quirinale di un antiberlusconiano sarebbe il modo peggiore per far partire un governo (Matteo Richetti, 3 aprile); e sono sempre stati loro i primi a dire che sarebbe una follia mettere fuorigioco il capo dell’opposizione con una legge ad hoc (Alfredo Bazoli, 28 marzo).
La ragione dell’antiberlusconismo temperato di cui si è fatto portavoce il mondo renziano non è legata a una pura questione di tattica ma ha una spiegazione di carattere squisitamente politico che il sindaco ha sempre rivendicato nonostante i molti attacchi ricevuti da chi da sempre lo osserva come una specie di cavallo di troia del berlusconismo. Renzi, si sa, non ha mai fatto mistero di considerare letale per l’identità del Pd l’atteggiamento di subalternità psicologica coltivato nei confronti del Cavaliere e in diverse occasioni, anche recenti, ha ricordato che a suo modo di vedere è stata proprio l’ossessione per Berlusconi ad aver costituito il vero elemento di fragilità del mondo del centrosinistra.
“La loro ossessione per il Cavaliere – ha scritto Renzi nel libro “Fuori!” – è anche la loro legittimazione, l’unico modo per dare un senso al proprio impegno. E, paradossalmente, tutto ciò fa il gioco del Cavaliere, che ha molto da guadagnare da un’opposizione pregiudiziale e ideologica”.
Che la rottamazione renziana sia da intendere anche come una rimozione forzata dei vecchi tic del centrosinistra lo si è intuito non solo in quel pomeriggio del 2010 quando il sindaco raggiunse ad Arcore Berlusconi (scandalo!) ma anche quando nel luglio 2012 il Rottamatore prese carta e penna per spiegare a Sandra Bonsanti, presidente della zagrebelskiana Libertà e Giustizia, per quale ragione la sinistra non sarebbe mai diventata vincente senza abbandonare il pregiudizio antiberlusconiano.
“Qualcuno – scrisse Renzi – mi accusa di intelligenza col nemico perché ho detto che voglio i voti di queste persone, giudicandoli fondamentali per tornare a vincere. Voglio convincerli a stare con noi, perché noi non li deluderemo. Ma voglio convincerli, più banalmente, perché senza di loro non si vince. E considerando che la vostra generazione ha raggiunto il paradosso di proclamare l’antiberlusconismo regalandoci a sua insaputa vent’anni di berlusconismo, beh, sappiate che toccherà a noi rimediare…”.
Renzi, dunque, tornando alla pellicola sul Caimanicidio, sogna un finale in cui il Cavaliere non esce di scena con i ferri alle mani e le monetine sulla testa ma in cui Berlusconi viene sonoramente sconfitto alle urne. Bersani ci aveva provato ma Berlusconi è rinato (e, coincidenza delle coincidenze, la rinascita si è materializzata proprio di fronte ai suoi nemici: ricordate quella sera da Santoro?) e ora è di nuovo in testa ai sondaggi e si prepara alle elezioni.
Un po’ come Renzi, che anche ieri ha fatto intendere che di questo passo le urne sono davvero più vicine (“stiamo perdendo tempo”). Lo scenario è questo. E chissà che allora per il sindaco non si stia avvicinando il momento di girare il suo finale e dimostrare che per far fuori Berlusconi non servono le monetine ma serve qualcos’altro. Serve sfidarlo. Serve inchiodarlo. Serve molto più semplicemente batterlo sul campo.