Giovanni Orsina per La Stampa
05/12/2015
Se vivessimo a qualche anno-luce di distanza dalla Terra e guardassimo al nostro pianeta con lo stesso spirito col quale un entomologo osserva un termitaio, potremmo ammetterlo perfino alla vigilia delle importanti elezioni regionali che si terranno domani in Francia: le democrazie contemporanee stanno attraversando una fase di mutamento di straordinario interesse.
Il problema però, com’è noto, è che queste trasformazioni oltre a essere interessanti sono pure alquanto pericolose; che riusciamo a comprenderle soltanto fino a un certo punto; che (soprattutto) non riusciamo a prevedere fin dove ci porteranno. E infine, per quel che riguarda specificamente noi italiani, che nel nostro Paese la democrazia ha cominciato a cambiare prima e sta cambiando ancora più in profondità che altrove.
Le trasformazioni delle democrazia contemporanee possono essere studiate da molti punti di vista. Non è un caso che la letteratura scientifica sul populismo negli ultimi anni sia venuta crescendo a dismisura, in un costante moltiplicarsi di definizioni e spiegazioni. Qui di tante prospettive ne sceglierò una soltanto – sapendo ovviamente che non può esaurire il problema, ma convinto pure che possa dare un contributo importante alla sua comprensione. La mia ipotesi, dunque, è la seguente: le opinioni pubbliche democratiche sono affette da una sorta di ritardo psicologico, a motivo del quale si pensano ancora nel ventesimo secolo e non smettono di chiedere alla politica soluzioni ambiziose come quelle, appunto, che hanno caratterizzato il Novecento. La politica per parte sua non trova il modo di contrastare questo ritardo – cerca anzi di sfruttarlo, e finisce per aggravarlo, ostinandosi a promettere grandi cose. Promesse che però, poiché il ventesimo secolo è davvero, radicalmente, finito, non è più in grado di mantenere.
Si apre così, e si viene via via dilatando, un immenso spazio di frustrazione, nel quale proliferano i germi più nocivi: la perdita del senso della realtà, che fa ritenere plausibili operazioni del tutto improponibili; la ricerca del capro espiatorio, che spinge a identificare un colpevole e a sperare che, eliminato e punito quello, tutto possa magicamente risolversi; il complottismo, che quel colpevole lo vede non soltanto inetto, ma consapevolmente e perfidamente intento al male; l’indignazione cosmica, perché se ci sono soluzioni semplici e a portata di mano, allora è un’indecenza che non le si attui subito; la sindrome del tanto peggio tanto meglio, perché siamo a tal punto delusi e furibondi che quelli che ci sono adesso non li vogliamo vedere mai più, accada quel che accada.
È in questo spazio di frustrazione che nascono e crescono i movimenti cosiddetti populisti. Che vengono talvolta detti anche antipolitici, ma nella nostra prospettiva in realtà antipolitici non lo sono affatto: al contrario, sono nostalgici di una politica potente che c’era e non c’è più, e promettono di ripristinarla. Sia chiaro: con questo non voglio affatto sostenere che quei partiti non diano a domande quanto mai reali risposte magari sgradevoli, pericolose o estreme, ma assai concrete – basti pensare al tema della sicurezza. Voglio però dire che quelle domande reali e quelle risposte concrete nuotano in un brodo psicologico e storico ben più vasto, variegato e complesso.
Perché siamo così riluttanti a uscire dal Novecento? Qui posso soltanto avanzare un’ipotesi: perché agli esseri umani non è mai andata così bene per così tanto tempo com’è accaduto in Occidente nella seconda metà del secolo scorso. Lo disse nel 1957, con una frase rimasta celebre, l’allora premier britannico Harold Macmillan: «Most of our people have never had it so good». Il sogno è stato così bello che, comprensibilmente, non abbiamo nessuna voglia di svegliarci. E mandiamo anzi con violenza a quel paese chiunque si azzardi a scuoterci dal nostro sonno. Ma – e questa seconda domanda è ancora più importante della precedente – riusciremo a svegliarci, prima o poi? Dalla risposta che troveremo dipenderanno i destini futuri dei movimenti populisti, e soprattutto quelli delle nostre democrazie.
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