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di Angelo Panebianco, 10/05/2016, via Corriere della Sera (QUI l’articolo originale)
Sarà l’ennesima, tristissima, dimostrazione di quanto possa scadere il dibattito pubblico nei momenti in cui il conflitto raggiunge la massima intensità. Se così non fosse, potremmo fin d’ora divertirci pensando alle scenette involontariamente comiche a cui assisteremo durante la campagna per il referendum costituzionale di ottobre. Come quella in cui qualche nemico della riforma, travolto da insana passione politica, accuserà il Presidente della Repubblica emerito , Giorgio Napolitano, di tradimento della costituzione, di essere complice del «progetto autoritario» concepito dal perfido Erdogan- Renzi .
Nell’intervista al Corriere del 3 maggio, Napolitano ha detto il vero. Se la riforma del Senato non passerà, quella sarà la fine di ogni speranza di rinnovamento della democrazia italiana. Napolitano ha ricordato i tentativi passati, sempre falliti, per fare dell’Italia una vera democrazia governante. Ha anche osservato che l’eterogenea coalizione che dice «no» alla riforma è composta da tre gruppi. C’è il gruppo dei contrari, sempre e comunque, a toccare la Costituzione, quelli per cui (persino) il «bicameralismo paritetico» (due Camere con uguali poteri) è una componente imprescindibile della democrazia. C’è poi il gruppo di quelli a cui non importa molto della Costituzione, quelli che vogliono «fare fuori» Renzi.
Il terzo gruppo, infine, è composto dai perfezionisti, quelli favorevoli, in linea di principio, a riformare la Costituzione ma la cui contrarietà dipende dall’esistenza di sbavature e difetti vari del testo approvato dal Parlamento. Con i primi due gruppi, che chiameremo gli «irriducibili», è inutile discutere. Non possono essere convinti (oltre a tutto, come vedremo, sono tenuti insieme non solo da ragioni ideali ma anche da interessi politici e corporativi). Si può solo mostrare al pubblico la debolezza di molte delle loro argomentazioni.
Il gruppo con cui vale la pena di discutere è quello dei perfezionisti, ostili allariforma a causa di certi suoi difetti attinenti alla composizione del Senato (come la presenza di una quota di sindaci) e ad alcune delle previste competenze. Sono anche gli unici sinceramente interessati a confrontarsi pacatamente (come ha fatto Valerio Onida sul Corriere di ieri). Ai perfezionisti, occorre dire che, sì, la riforma ha qualche difetto ma che questo è inevitabile , si verifica sempre quando un «comitato» in cui sono presenti tante teste e tante sensibilità diverse (un Parlamento è proprio questo) deve deliberare su un provvedimento complesso. Le mediazioni parlamentari, inevitabilmente, «sporcano», almeno un po’, qualsiasi progetto, anche quello che in origine sembrava ottimo, perfetto.
L’ unica possibilità alternativa alle mediazioni parlamentari (con i loro tira emolla e i compromessi necessari per formare una maggioranza) è una riforma imposta dall’alto, dal De Gaulle di turno, e confezionata per lui da un consigliere di fiducia. Se si preferisce la prima soluzione (e penso che siamo d’accordo nel preferirla), quella della mediazione parlamentare, della decisione collettiva assunta da un comitato, allora bisogna rassegnarsi alle imperfezioni. Solo una leggenda ha fatto credere ad alcuni che la stessa sorte non fosse toccata alla Costituzione vigente quando venne confezionata dall’apposito comitato(la Costituente) .
Sabino Cassese (Corriere del 6 maggio) ha mostrato la debolezza degli argomenti dei contrari alla riforma del Senato. Non c’è nessuna «democrazia autoritaria» alle porte. Il governo sarà un po’ più forte (e un po’ più stabile ed efficiente) ma continuerà ad essere bilanciato da contropoteri che esistono oggi ma non esistevano agli albori della Repubblica: le istituzioni europee, la Corte costituzionale, le Regioni. Si rimedierà però a due gravi errori: il bicameralismo paritetico, appunto, che ha reso sempre debole e incerta la navigazione dei governi, e gli effetti della sciagurata riforma del titolo V che spostò dal governo centrale alle Regioni poteri e competenze che non avrebbero mai dovuto prendere quella strada e che mise i governi nella impossibilità di attuare politiche nazionali in alcuni ambiti cruciali.
Piuttosto, è giusto ricordare, come ha fatto Antonio Polito sul Corriere del 9 maggio, che la riforma del Senato è strettamente collegata alla legge elettorale (Italicum). Chi vota (in un senso o nell’altro) sul Senato vota anche, di fatto, su quella legge. Ci sono interessi, politici e corporativi, che, motivi ideali a parte, alimentano la «coalizione del no». In primo luogo, sono ostili diverse Regioni le quali preferiscono di gran lunga tenersi poteri e competenze regalate loro dalla riforma del titolo V, fonti di tante «insane» politiche clientelari, piuttosto che puntare su quell’influenza sana, pulita, che il costituendo Senato delle Regioni consentirebbe loro di esercitare in difesa dei rispettivi territori.
Poi ci sono alcuni settori della magistratura (Magistratura democratica fa parte del comitati per il no, e diversi magistrati stanno facendo campagna contro la riforma). Verosimilmente, temono il rafforzamento del governo, temono che, per effetto di quel rafforzamento, la loro posizione di preminenza entro il sistema politico possa, col tempo, indebolirsi. Ci sono poi gli interessi politico-partitici, quelli dei nemici di Renzi, interni al suo partito ed esterni, di coloro che vogliono affossare la riforma per sbarazzarsi del premier. Nulla da eccepire: è la politica, bellezza. Si può solo concordare con Il Foglio quando rileva una stranezza: Silvio Berlusconi (che ha appena ribadito la sua contrarietà alla riforma) si ritrova ora alleato dei propri storici nemici, di una coalizione che usa contro Renzi gli stessi argomenti che per venti anni ha usato contro di lui. Non c’è alcun progetto autoritario. E Renzi non è Erdogan. Ma il buon senso è una merce rara. Soprattutto in politica.
Giovanni Orsina per La Stampa
05/12/2015
Se vivessimo a qualche anno-luce di distanza dalla Terra e guardassimo al nostro pianeta con lo stesso spirito col quale un entomologo osserva un termitaio, potremmo ammetterlo perfino alla vigilia delle importanti elezioni regionali che si terranno domani in Francia: le democrazie contemporanee stanno attraversando una fase di mutamento di straordinario interesse.
Il problema però, com’è noto, è che queste trasformazioni oltre a essere interessanti sono pure alquanto pericolose; che riusciamo a comprenderle soltanto fino a un certo punto; che (soprattutto) non riusciamo a prevedere fin dove ci porteranno. E infine, per quel che riguarda specificamente noi italiani, che nel nostro Paese la democrazia ha cominciato a cambiare prima e sta cambiando ancora più in profondità che altrove.
Le trasformazioni delle democrazia contemporanee possono essere studiate da molti punti di vista. Non è un caso che la letteratura scientifica sul populismo negli ultimi anni sia venuta crescendo a dismisura, in un costante moltiplicarsi di definizioni e spiegazioni. Qui di tante prospettive ne sceglierò una soltanto – sapendo ovviamente che non può esaurire il problema, ma convinto pure che possa dare un contributo importante alla sua comprensione. La mia ipotesi, dunque, è la seguente: le opinioni pubbliche democratiche sono affette da una sorta di ritardo psicologico, a motivo del quale si pensano ancora nel ventesimo secolo e non smettono di chiedere alla politica soluzioni ambiziose come quelle, appunto, che hanno caratterizzato il Novecento. La politica per parte sua non trova il modo di contrastare questo ritardo – cerca anzi di sfruttarlo, e finisce per aggravarlo, ostinandosi a promettere grandi cose. Promesse che però, poiché il ventesimo secolo è davvero, radicalmente, finito, non è più in grado di mantenere.
Si apre così, e si viene via via dilatando, un immenso spazio di frustrazione, nel quale proliferano i germi più nocivi: la perdita del senso della realtà, che fa ritenere plausibili operazioni del tutto improponibili; la ricerca del capro espiatorio, che spinge a identificare un colpevole e a sperare che, eliminato e punito quello, tutto possa magicamente risolversi; il complottismo, che quel colpevole lo vede non soltanto inetto, ma consapevolmente e perfidamente intento al male; l’indignazione cosmica, perché se ci sono soluzioni semplici e a portata di mano, allora è un’indecenza che non le si attui subito; la sindrome del tanto peggio tanto meglio, perché siamo a tal punto delusi e furibondi che quelli che ci sono adesso non li vogliamo vedere mai più, accada quel che accada.
È in questo spazio di frustrazione che nascono e crescono i movimenti cosiddetti populisti. Che vengono talvolta detti anche antipolitici, ma nella nostra prospettiva in realtà antipolitici non lo sono affatto: al contrario, sono nostalgici di una politica potente che c’era e non c’è più, e promettono di ripristinarla. Sia chiaro: con questo non voglio affatto sostenere che quei partiti non diano a domande quanto mai reali risposte magari sgradevoli, pericolose o estreme, ma assai concrete – basti pensare al tema della sicurezza. Voglio però dire che quelle domande reali e quelle risposte concrete nuotano in un brodo psicologico e storico ben più vasto, variegato e complesso.
Perché siamo così riluttanti a uscire dal Novecento? Qui posso soltanto avanzare un’ipotesi: perché agli esseri umani non è mai andata così bene per così tanto tempo com’è accaduto in Occidente nella seconda metà del secolo scorso. Lo disse nel 1957, con una frase rimasta celebre, l’allora premier britannico Harold Macmillan: «Most of our people have never had it so good». Il sogno è stato così bello che, comprensibilmente, non abbiamo nessuna voglia di svegliarci. E mandiamo anzi con violenza a quel paese chiunque si azzardi a scuoterci dal nostro sonno. Ma – e questa seconda domanda è ancora più importante della precedente – riusciremo a svegliarci, prima o poi? Dalla risposta che troveremo dipenderanno i destini futuri dei movimenti populisti, e soprattutto quelli delle nostre democrazie.
http://www.lastampa.it/2015/12/05/cultura/opinioni/editoriali/il-populismo-nostalgia-della-politica-t2UnmUCQK3hiiE0QZEAWKP/pagina.html
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