La pratica delle mutilazioni genitali femminili ci lascia, come occidentali, ammutoliti, turbati e percorsi da un forte senso di impotenza. Quest’insieme di pratiche antiche e radicate in paesi che ci appaiono così lontani da noi, non solo geograficamente ma soprattutto culturalmente, è per noi molto difficile da comprendere e ovviamente anche da combattere.
Lo sforzo che però dobbiamo fare, per capire le conseguenze di questo fenomeno senza basarci unicamente su numeri e diffusione geografica (che sono importanti ma non sufficienti alla comprensione del fenomeno), è provare a calarci il più possibile in queste realtà.
Nascere in un piccolo villaggio nel Corno d’Africa, in Gibuti, in Somalia o in Eritrea; nascere in una famiglia molto tradizionale in Egitto o in Guinea; nascere in sobborghi o quartieri di città più o meno grandi in India, Indonesia, Iraq, Pakistan, o Yemen, può essere per una bambina una vera condanna. È fin dalla più tenera età che sul corpo delle donne, molte società e molti paesi nel mondo, provano ad esercitare un violento potere di controllo, di censura e di limitazione. Parlando di mutilazioni genitali femminili affrontiamo la parte più inaccettabile, violenta e preoccupante di un fenomeno che però ha sempre percorso le società umane, anche nel nostro civilissimo occidente.
Per questo è necessario calarsi il più possibile in queste realtà dove la pratica è diffusa per comprendere che non ci saranno medici o infermieri che basteranno per salvare quelle bambine da uno sguardo maschile che le riterrà sempre un oggetto di cui disporre, un soggetto da controllare, se non addirittura un corpo da purificare.
Per questo io ritengo fondamentale affiancare all’intervento medico, di controllo sanitario, anche un intervento di sensibilizzazione interno a queste comunità dove, facendosi affiancare da figure locali riconosciute (sia istituzionali, come membri dei governi, sia più popolari, come attori, cantanti, o nelle realtà più piccole punti di riferimento dei villaggi), ci si impegni concretamente a diffondere messaggi di accettazione, rispetto e inclusione della donna. Innanzitutto fra gli uomini e fra coloro che in ognuna di queste realtà detengono il potere decisionale e politico.
È dal tema del riconoscimento dell’autonomia della donna che passa ogni lotta alla violenza e alle discriminazioni, sia in occidente, sia nel resto del mondo. Ed è per questo che la politica deve lavorare, fornendo strumenti per l’emergenza sanitaria, senza però mai dimenticare di occuparsi anche dell’emergenza sociale.
Badate bene, non intendo affatto avallare operazioni di colonizzazione ideologica di società con valori e credenze religiose molto diversi dai nostri. Sono io stesso un credente e posso comprendere quanto la fede sia un potente veicolo valoriale. Tuttavia le sacre scritture, così come le religioni animiste, forniscono una pluralità di messaggi, ed è anche all’interno di questi che si possono trovare validi alleati per dimostrare l’importanza del rispetto per la donna come altra, partitaria, autonoma, parte del mondo.
Mettiamoci la faccia tutti insieme su questa battaglia, costruiamo un cordone mondiale di uomini che dicono NO ad ogni forma di violenza sul corpo della donna e sulla sua libertà, tenendo sempre bene a mente che libertà significa poter scegliere fra tutte le opzioni, non poter scegliere fra le opzioni che qualcun altro ha scelto per te.