Di Paolo Gentiloni – Europa
Due settimane fa Giorgio Napolitano ha salvato il Pd. La sua scelta di accettare la rielezione al Quirinale per evitare un terribile stallo istituzionale ha avuto infatti come effetto collaterale di evitare l’implosione del Pd.
Superato lo shock di quella sera del 19 aprile, con le dimissioni di Bersani dopo l’affondamento di Prodi da parte di 101 franchi tiratori, e varato il governo Letta, ora il Pd deve interrogarsi sul proprio futuro. Cominciando dalla domanda più radicale: esiste un futuro per questo nostro partito fondato appena sei anni fa?
Nella discussione che abbiamo davanti vanno evitati alcuni errori di partenza. Primo: far finta di essere sani. Siamo al governo, non è vero? E allora perché impelagarsi in una discussione interna al limite del disfattismo? La risposta è ovvia: non siamo affatto sani, anzi appena qualche giorno fa ci sentivamo (e ci consideravano) quasi spacciati. E la frattura tra vertice e base è più aperta che mai.
Altrettanto inutile sarebbe circoscrivere le ragioni della crisi esplosa nel corso delle votazioni per il Quirinale a un problema di disciplina interna. Bersani ha denunciato i “traditori” e la mancanza di un principio di responsabilità nella prova del Quirinale. Troppo tardi e troppo poco, verrebbe da dire. Tradimenti e irresponsabilità sono stati gli effetti finali di una deriva in atto da tempo che ci ha portato a una sconfitta elettorale tanto più cocente quanto più inattesa. I nostri guai sono dunque molto più seri della follia di un giorno o di una gestione miope del dopo voto che ci ha costretti ad accettare quel governissimo che avevamo sempre escluso.
Discutiamo allora seriamente, prendendoci la libertà di andare oltre il totonomi per il segretario reggente o la conta tra correnti. A me è molto chiaro quel che non ha funzionato. Non ha funzionato la nostra linea politica.
La vittoria congressuale di Bersani (dare «un senso a questa storia») si è tradotta nell’archiviazione del Pd a vocazione maggioritaria, del partito pigliatutto e all’americana guidato da Veltroni. «Noi organizziamo il nostro campo, e poi ci alleeremo coi moderati»: quante volte lo abbiamo sentito ripetere da chi ha guidato il Pd? Peccato che i confini del nostro campo siano apparsi sempre più labili: la foto di Vasto è ingiallita dopo appena sei mesi e l’unico partner rimasto – Vendola – ci ha lasciati alla prima prova politica del dopo voto. Per non parlare delle alleanze coi moderati –rimedio ai guasti della vocazione maggioritaria, secondo i vertici del partito post 2009 – che non abbiamo mai visto neppure da lontano. Quindi dopo tre anni ci siamo trovati con un Pd più schiacciato a sinistra, e più solo, che ha raccolto tre milioni di voti in meno del 2008 e della precedente somma di Ds e Margherita. Una Quercia senza Ulivo.
Il paradosso è che al capolinea di questo percorso si è parlato di un fenomeno apparentemente opposto: il ridimensionamento della filiera ex Pci nel governo. Come se all’origine della nostra sconfitta non fosse la linea seguita da oltre tre anni ma un improvviso rigurgito democristiano (tra l’altro indotto da Napolitano…). In realtà la mutazione del Pd verso un modello di sinistra tradizionale e l’incarico di governo a un quarantenne ex dc vanno di pari passo. La ditta torna ad assomigliare da vicino a quella di una volta, e come quella di una volta subisce una certa riduzione minoritaria e si rivolge, per governare, a personalità esterne o almeno estranee alla tradizione dominante. Ieri Prodi e Rutelli, oggi Letta e domani magari Renzi. Unica eccezione, Veltroni, il più esterno tra gli interni.
Rimettere in discussione la strada fatta per oltre tre anni – ossia per la maggior parte della breve vita del Pd – non sarà facile. E forse solo una leadership certo “esterna” ma non octroyée, bensì conquistata sul campo da uno come Matteo Renzi potrebbe riuscire nell’impresa. A condizione che sappia essere portatrice di una visione al tempo stesso alternativa alla destra e vincente.
Oggi, purtroppo, rischiamo l’esatto contrario: un Pd che mescola una visione tanto subalterna alla destra quanto minoritaria. Un partito in cui circola una strana idea della cosidetta Terza repubblica la cui cifra più che la riforma delle istituzioni sarebbe la legittimazione pacificatrice di Berlusconi. E questa idea, nello stesso vertice che ha guidato il Pd per quasi quattro anni, convive con una linea di rigetto del riformismo lib-lab mascherata da rigetto del “neoliberismo” e accompagnata da un deciso j’accuse contro l’interclassismo e il pluralismo culturale, due dei pilastri fondanti dell’idea stessa di Pd. Una linea in qualche modo nostalgica della rassicurante centralità del partito di una volta, sia pure riproposto in versione 2.0.
Chi demonizza l’interclassismo dipingendolo come uno dei frutti avvelenati della stagione neoliberista del centrosinistra finisce del resto per scontrarsi con un amaro paradosso della storia. Il classismo di ritorno è solo a parole a difesa dei più deboli. La realtà è tutt’altra. Così come a livello internazionale si demonizza la globalizzazione per la crisi che produce nelle nazioni ricche e privilegiate, dimenticando però che sta consentendo a miliardi di persone di uscire dalla povertà, a livello nazionale si manifesta a difesa dei settori relativamente più garantiti del mondo del lavoro. Settori ben lontani dall’essere privilegiati, naturalmente, visti salari e stipendi medi italiani. Ma comunque meno esposti ai fenomeni della precarietà e della marginalità che investono circa metà del mondo del lavoro.
Come stupirsi allora di un elettorato Pd che tende a concentrarsi nelle classi medie istruite e urbanizzate, nel pubblico impiego, nelle persone anziane, e che è debolissimo tra i precari, le fasce più deboli ed emarginate, i giovani operai, gli artigiani i commercianti e i piccoli imprenditori esposti alla crisi? Tutte facili prede del populismo della destra? Se così fosse, varrebbe comunque il monito di Franco Cassano: «Non bisogna lasciare al conservatorismo la confidenza con la debolezza dell’uomo».
Ma a parte il fatto che la storia offre molti esempi di populismo anche di sinistra, il nodo è altrove: una sinistra che si ponga come obiettivo la pura e semplice conservazione del sistema del welfare costruito mezzo secolo fa finisce per perdere di vista i più deboli e, a lungo andare, la propria stessa anima. Evoca continuamente i ceti più deboli e disagiati nei propri discorsi ma è priva di strumenti e apparati non dico per organizzarli, ma almeno per rappresentarli sul piano elettorale.
Quanto di buono ha fatto la sinistra europea negli ultimi venti anni – in pratica, tutte le sue esperienze vincenti – non viene discusso per essere aggiornato alla luce della crisi finanziaria degli ultimi sei anni; viene semplicemente bollato come neoliberismo. Il rimedio? Eccolo, secondo i giovani dirigenti che hanno avuto maggior peso nella vita del Pd negli ultimi tre anni: «Solo uscendo dal terreno che le è stato imposto dall’avversario, rifiutando cioè il concetto stesso di una società degli individui, la sinistra potrà ritrovare la sua missione… il Pd dovrebbe avere la forza di affermare che l’individuo non esiste, senza la società». In questo thatcherismo capovolto, più che ai Giovani turchi la mente corre a vecchissimi operaismi.
Non basta. La conseguenza –inevitabile? – di questo ritorno a una visione tipica della sinistra di trenta, quaranta anni fa è spesso, sul terreno istituzionale, un conservatorismo venato di nostalgia. Una singolare nostalgia per la Prima repubblica e per i grandi partiti d’antan da parte di una generazione che dei partiti di massa ha vissuto al più la stagione declinante. «Non è il crescente distacco dal popolo a spiegare il venir meno del ruolo assolto un tempo dai partiti. –cito ancora un testo dei Giovani turchi – è il venir meno del loro ruolo… che spiega il loro abbandono da parte del popolo, e anche la loro involuzione democratica».
In tutta Europa la crisi del modello novecentesco dei partiti è conclamata, a destra come a sinistra. Il confronto è sui rimedi. Semplificando, si può tracciare una linea di demarcazione tra chi sperimenta una fuoriuscita dalla crisi dei partiti in senso populista-autoritario e chi lo fa nel senso di una democrazia più partecipata. Nessuna delle due strade può negare l’evidenza, ossia che oggi gli elettori i partiti li guardano in cagnesco e vogliono comunque scegliere anche una persona e una storia personale. La strada indicata dal Pd col nostro atto di nascita accompagna la giusta personalizzazione della politica non con implicazioni autoritarie ma con un di più di democrazia. Di qui l’interesse per la versione europea delle primarie introdotte dal Pd in Italia.
Ma nel Pd dei tempi recenti si è fatta avanti una diversa ipotesi. Il Pd attraversa buona parte delle difficoltà tipiche del declino dei partiti di massa del Novecento ma lo fa con la testa altrove. Come il famoso pianista del saloon, continua a suonare lo spartito della compattezza, del discutere dentro ma mostrarsi uniti fuori, dell’organizzazione che viene prima delle persone, del partito pesante (o robusto) che finalmente ha rimpiazzato l’insostenibile leggerezza veltroniana. E attorno a chi suona questo vecchio spartito, tutti se le danno di santa ragione. Così Bersani si scaglia contro la personalizzazione della leadership e invoca la priorità del collettivo, ma poi (inevitabilmente) inonda le città con i suoi personalissimi manifesti prima in maniche di camicia e poi in gessato, decide di candidarsi alle primarie davanti al distributore di Bettola, addirittura esalta il suo personalissimo gramelot davanti allo specchio deformante di uno strepitoso Crozza.
L’invocazione del modello di una volta non solo non risolve i problemi dell’organizzazione del Pd. Se possibile, li aggrava, perché negli ultimi anni sono venute meno anche alcune delle ragioni che ne alimentavano la sopravvivenza. Ragioni legate a una “diversità” diluita dal nostro stesso atto di nascita e spazzata via dal dilagare di un partito popolato da notabili e funzionari. Non potendo incidere sulla realtà organizzativa del partito sul territorio, quell’invocazione è diventata così una sorta di collante ideologico tra ex. Lo stesso stimolante tentativo di Fabrizio Barca di sbrogliare da questo bandolo la matassa della crisi del Pd, tentativo che comunque va preso sul serio perché contiene ipotesi innovative, risente del richiamo a questa vecchia centralità.
Ora le idee su cui Bersani ha vinto il Congresso del 2009 vengono riproposte da alcuni come se fossero state finora compresse ed emarginate. Come se avessimo sbandato in senso liberale e ceduto voti a Vendola, Di Pietro e Ingroia. Al contrario, le idee che ho fin qui criticato sono state la teoria e la prassi largamente dominante nel Pd di questi anni. Non sono il rimedio alla sconfitta, ma la sua origine. Prendere atto di questo è per me la premessa di una discussione congressuale.
Voltare pagina non sarà facile, ma la direzione di marcia è ancora obbligata: rimettersi a fare il Pd. Riproporre la speranza del riformismo liblab, aggiornato al tempo dell’Europa scossa dalla crisi della finanza. Puntare sulla qualità, sull’innovazione digitale, sul welfare universale, sulla produttività, sulla bellezza e lo spirito d’impresa. Su cambiamenti strutturali per ridurre le diseguaglianze e non sull’illusione di una redistribuzione statalista. Sull’Europa federale. Su un sistema istituzionale semipresidenziale e in grado di decidere. Sul rigore di regole e principi liberali in alternativa alla prepotenza e al privilegio del capitalismo finanziario e di relazione. Su un partito aperto, alla Rete e alle reti civiche. Insomma, tornare a sperare in una grande maggioranza democratica. Sono le risposte che aspettiamo da Matteo Renzi e che mi auguro il Pd sappia costruire insieme a lui.