Il testo completo della significativa intervista di Padre Spadaio a Papa Francesco, comparsa la scorsa settimana a Civiltà Cattolica. Un testo lungo ma che decisamente merita di essere letto.
La Chiesa secondo Jorge Bergoglio in un’intervista a “Civiltà Cattolica”: l’infanzia, gli errori, i divorziati, gli omosessuali, la musica e il cinema.
TRE INCONTRI ad agosto per sei ore totali e poi, nell’ultimo numero di “Civiltà Cattolica”, una rivista dei gesuiti, padre Antonio Spadaro ha riportato il lungo colloquio con il gesuita eletto Papa. Jorge Bergoglio non si è sottratto alle domande più insidiose sulla fede, sui precetti e neppure sul dialogo con gli omosessuali e i divorziati o le donne che hanno abortito.
È lunedì19 agosto.Papa Francesco mi ha dato appuntamento alle 10:00 in Santa Marta. Io però eredito da mio padre la necessità di arrivare sempre in anticipo. Le persone che mi accolgono mi fanno accomodare in una saletta. L’attesa dura poco, e dopo un paio di minuti vengo accompagnato a prendere l’ascensore. Nei due minuti ho avuto il tempo di ricordare quando a Lisbona, in una riunione di direttori di alcune riviste della Compagnia di Gesù, era emersa la proposta di pubblicare tutti insieme un’intervista al Papa.
Avevo discusso con gli altri direttori, ipotizzando alcune domande che esprimessero gli interessi di tutti. Esco dall’ascensore e vedo il Papa già sulla porta ad attendermi. Anzi, in realtà, ho avuto la piacevole impressione di non aver varcato porte. Entro nella sua stanza e il Papa mi fa accomodare su una poltrona. Lui si siede su una sedia più alta e rigida a causa dei suoi problemi alla schiena. L’ambiente è semplice, austero. Lo spazio di lavoro della scrivania è piccolo.
Sono colpito dalla essenzialità non solamente degli arredi, ma anche delle cose. Ci sono pochi libri, poche carte, pochi oggetti. Tra questi un’icona di San Francesco, una statua di Nostra Signora di Luján, Patrona dell’Argentina, un crocifisso e una statua di san Giuseppe dormiente, molto simile a quella che avevo visto nella sua camera di rettore e superiore provinciale presso il Colegio Máximo di San Miguel. La spiritualità di Bergoglio non è fatta di “energie armonizzate” , come le chiamerebbe lui, ma di volti umani: Cristo, san Francesco, san Giuseppe, Maria.
Il Papa mi accoglie col sorriso che ormai ha fatto più volte il giro del mondo e che apre i cuori. Cominciamo a parlare di tante cose, ma soprattutto del suo viaggio in Brasile. Il Papa lo considera una vera grazia. Gli chiedo se si è riposato. Lui mi dice di sì, che sta bene, ma soprattutto che la Giornata Mondiale della Gioventù è stata per lui un “mistero”. Mi dice che non è mai stato abituato a parlare a tanta gente: “Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse”.
Gli dico che è vero, e che si vede, e che questo colpisce tutti. Si vede che, quando lui è in mezzo alla gente, i suoi occhi in realtà si posano sui singoli. Poi le telecamere proiettano le immagini e tutti possono vederle, ma così lui può sentirsi libero di restare in contatto diretto, almeno oculare, con chi ha davanti a sé. Mi sembra contento di questo, cioè di poter essere quel che è, di non dover alterare il suo modo ordinario di comunicare con gli altri, anche quando ha davanti a sé milioni di persone, come è accaduto sulla spiaggia di Copacabana. Prima che io accenda il registratore parliamo anche d’altro.
Commentando una mia pubblicazione, mi ha detto che i due pensatori francesi contemporanei che predilige sono Henri de Lubac e Michel de Certeau. Gli dico anche qualcosa di più personale. Anche lui mi parla di sé e in particolare della sua elezione al Pontificato.
Mi dice che quando ha cominciato a rendersi conto che rischiava di essere eletto, il mercoledì 13 marzo a pranzo, ha sentito scendere su di lui una profonda e inspiegabile pace e consolazione interiore insieme a un buio totale, a una oscurità profonda su tutto il resto. E questi sentimenti lo hanno accompagnato fino all’elezione. (…) Poco prima dell’udienza che ha concesso ai gesuiti della Civiltà Cattolica il 14 giugno scorso, il Papa mi aveva parlato della sua grande difficoltà a rilasciare interviste.
Mi aveva detto che preferisce pensare più che dare risposte di getto in interviste sul momento. Sente che le risposte giuste gli vengono dopo aver dato la prima risposta: “Non ho riconosciuto me stesso quando sul volo di ritorno da Rio de Janeiro ho risposto ai giornalisti che mi facevano le domande”, mi dice. Ma è vero: in questa intervista più volte il Papa si è sentito libero di interrompere quel che stava dicendo rispondendo a una domanda, per aggiungere qualcosa sulla precedente. (…) È chiaro che Papa Francesco è abituato più alla conversazione che alla lezione.
Ho la domanda pronta, ma decido di non seguire lo schema che mi ero prefisso, e gli chiedo un po’ a bruciapelo: “Chi è Jorge Mario Bergoglio?”. Il Papa mi fissa in silenzio. Gli chiedo se è una domanda che è lecito porgli… Lui fa cenno di accettare la domanda e mi dice: “Non so quale possa essere la definizione più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore”. Il Papa continua a riflettere, compreso, come se non si aspettasse quella domanda, come se fosse costretto a una riflessione ulteriore.
“Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: ‘Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato'”. E ripete: “Io sono uno che è guardato dal Signore. Il mio motto Miserandoatqueeligendo (guardò con misericordia e lo scelse, ndr) l’ho sentito sempre come molto vero per me”.
Il motto di Papa Francesco è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: “Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi”. E aggiunge: “Il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando”.
Papa Francesco continua nella sua riflessione e mi dice, facendo un salto di cui sul momento non comprendo il senso: “Io non conosco Roma. Conosco poche cose. Tra queste Santa Maria Maggiore: ci andavo sempre”. Rido e gli dico: “Lo abbiamo capito tutti molto bene, Santo Padre!”.
“Ecco, sì – prosegue il Papa -, conosco Santa Maria Maggiore, San Pietro… ma venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio”. Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi. “Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo”.
E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: “È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: ‘No, non me! No, questi soldi sono miei!’. Ecco, questo sono io: ‘Un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi’. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice”. Quindi sussurra: “Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto”.
Comprendo che questa formula di accettazione è per Papa Francesco anche una carta di identità. Non c’era più altro da aggiungere. Proseguo con quella che avevo scelto come prima domanda: “Santo Padre, che cosa l’ha spinta a scegliere di entrare nella Compagnia di Gesù? Che cosa l’ha colpita dell’Ordine dei gesuiti?”. “Io volevo qualcosa di più. Ma non sapevo che cosa. Ero entrato in seminario. I domenicani mi piacevano e avevo amici domenicani.
Ma poi ho scelto la Compagnia, che ho conosciuto bene perché il seminario era affidato ai gesuiti. Della Compagnia mi hanno colpito tre cose: la missionarietà, la comunità e la disciplina. Curioso questo, perché io sono un indisciplinato nato, nato, nato. Ma la loro disciplina, il modo di ordinare il tempo, mi ha colpito tanto”.
“E poi una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta: quando sono stato eletto, abitavo per sorteggio nella stanza 207. Questa dove siamo adesso era una camera per gli ospiti. Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito distintamente un “no”.
L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri”.
Mentre il Papa parla di missione e di comunità, mi vengono in mente tutti quei documenti della Compagnia di Gesù in cui si parla di “comunità per la missione” e li ritrovo nelle sue parole. Che cosa significa per un gesuita essere Papa? Voglio proseguire su questa linea e pongo al Papa una domanda a partire dal fatto che lui è il primo gesuita a essere eletto Vescovo di Roma: “Come legge il servizio alla Chiesa universale che lei è stato chiamato a svolgere alla luce della spiritualità ignaziana? Che cosa significa per un gesuita essere eletto Papa? Quale punto della spiritualità ignaziana la aiuta meglio a vivere il suo ministero?”.
“Il discernimento”, risponde Papa Francesco. “Il discernimento è una delle cose che più ha lavorato interiormente sant’Ignazio. Per lui è uno strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo più da vicino. Mi ha sempre colpito una massima con la quale viene descritta la visione di Ignazio: Non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est. Ho molto riflettuto su questa frase in ordine al governo, ad essere superiore: non essere ristretti dallo spazio più grande, ma essere in grado di stare nello spazio più ristretto.
Questa virtù del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla posizione in cui siamo ci fa guardare sempre l’orizzonte. È fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. È valorizzare le cose piccole al-l’interno di grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio”. “Questa massima offre i parametri per assumere una posizione corretta per il discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo “punto di vista”. Per sant’Ignazio i grandi princìpi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo, di tempo e di persone.
A suo modo Giovanni XXIII si mise in questa posizione di governo quando ripeté la massima Omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere, perché, pur vedendo omnia, la dimensione massima, riteneva di agire su pauca, su una dimensione minima. Si possono avere grandi progetti e realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che risultano più efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi”.
“Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio, pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento.
E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri.
Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare”.
“Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa. Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte”.
Il discernimento è dunque un pilastro della spiritualità del Papa. In questo si esprime in maniera peculiare la sua identità gesuitica. Gli chiedo quindi come pensa che la Compagnia di Gesù possa servire la Chiesa oggi, quale sia la sua peculiarità, ma anche gli eventuali rischi che corre. “La Compagnia è un’istituzione in tensione, sempre radicalmente in tensione. Il gesuita è un decentrato. La Compagnia è in se stessa decentrata: il suo centro è Cristo e la sua Chiesa.
Dunque: se la Compagnia tiene Cristo e la Chiesa al centro, ha due punti fondamentali di riferimento del suo equilibrio per vivere in periferia. Se invece guarda troppo a se stessa, mette sé al centro come struttura ben solida, molto ben ‘armata’, allora corre il pericolo di sentirsi sicura e sufficiente. La Compagnia deve avere sempre davanti a sé il Deus semper maior, la ricerca della gloria di Dio sempre maggiore, la Chiesa Vera Sposa di Cristo nostro Signore, Cristo Re che ci conquista e al quale offriamo tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica, anche se siamo vasi di argilla, inadeguati. Questa tensione ci porta continuamente fuori da noi stessi. Lo strumento che rende veramente forte la Compagnia decentrata è poi quello, insieme paterno e fraterno, del ‘rendiconto di coscienza’, proprio perché la aiuta a uscire meglio in missione”.
Qui il Papa si riferisce a un punto specifico delle Costituzioni della Compagnia di Gesù nel quale si legge che il gesuita deve “manifestare la sua coscienza”, cioè la situazione interiore che vive, in modo che il superiore possa essere più consapevole e accorto nell’inviare una persona alla sua missione. “Ma è difficile parlare della Compagnia – prosegue Papa Francesco -. Quando si esplicita troppo, si corre il rischio di equivocare.
La Compagnia si può dire solamente in forma narrativa. Solamente nella narrazione si può fare discernimento, non nella esplicazione filosofica o teologica, nelle quali invece si può discutere. Lo stile della Compagnia non è quello della discussione, ma quello del discernimento, che ovviamente suppone la discussione nel processo. L’aura mistica non definisce mai i suoi bordi, non completa il pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto.
Ci sono state epoche nella Compagnia nelle quali si è vissuto un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che mistico: questa deformazione ha generato l’Epitome Instituti”. (…) Per il Papa, durante questo periodo nella Compagnia le regole hanno rischiato di sopraffare lo spirito, e ha vinto la tentazione di esplicitare e dichiarare troppo il carisma.
Prosegue: “No, il gesuita pensa sempre, in continuazione, guardando l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro. Questa è la sua vera forza. E questo spinge la Compagnia ad essere in ricerca, creativa, generosa. Dunque, oggi più che mai, deve essere contemplativa nell’azione; deve vivere una vicinanza profonda a tutta la Chiesa, intesa come ‘popolo di Dio’ e ‘santa madre Chiesa gerarchica’.
Questo richiede molta umiltà, sacrificio, coraggio, specialmente quando si vivono incomprensioni o si è oggetto di equivoci e calunnie, ma è l’atteggiamento più fecondo. Pensiamo alle tensioni del passato sui riti cinesi, sui riti malabarici, nelle riduzioni in Paraguay”. “Io stesso sono testimone di incomprensioni e problemi che la Compagnia ha vissuto anche di recente.
Tra queste vi furono i tempi difficili di quando si trattò della questione di estendere il ‘quarto voto’ di obbedienza al Papa a tutti i gesuiti. Quello che a me dava sicurezza al tempo di padre Arrupe era il fatto che lui fosse un uomo di preghiera, un uomo che passava molto tempo in preghiera. Lo ricordo quando pregava seduto per terra, come fanno i giapponesi.
Per questo lui aveva l’atteggiamento giusto e prese le decisioni corrette”. Il modello: Pietro Favre, “prete riformato”. A questo punto mi chiedo se tra i gesuiti ci siano figure, dalle origini della Compagnia ad oggi, che lo abbiano colpito in maniera particolare. E così chiedo al Pontefice se ci sono, quali sono e perché. Il Papa comincia a citarmi Ignazio e Francesco Saverio, ma poi si sofferma su una figura che i gesuiti conoscono, ma che certo non è molto nota in generale: il beato Pietro Favre (1506- 1546), savoiardo.
È uno dei primi compagni di sant’Ignazio, anzi il primo, con il quale egli condivideva la stanza quando i due erano studenti alla Sorbona. Il terzo nella stessa stanza era Francesco Saverio. Pio IX lo dichiarò beato il 5 settembre 1872, ed è in corso il processo di canonizzazione. Mi cita una edizione del suo Memoriale che lui fece curare da due gesuiti specialisti, Miguel A. Fiorito e Jaime H. Amadeo, quando era superiore provinciale.
Una edizione che al Papa piace particolarmente è quella a cura di Michel de Certeau. Gli chiedo quindi perché è colpito proprio dal Favre, quali tratti della sua figura lo impressionano. “Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…”. (…)
Quale tipo di esperienza di governo può far maturare la formazione avuta da padre Bergoglio, che è stato prima superiore e poi superiore provinciale nella Compagnia di Gesù? Lo stile di governo della Compagnia implica la decisione da parte del superiore, ma anche il confronto con i suoi “consultori”. E così chiedo al Papa: “Pensa che la sua esperienza di governo del passato possa servire alla sua attuale azione di governo della Chiesa universale?”.
Papa Francesco dopo una breve pausa di riflessione si fa serio, ma molto sereno. “Nella mia esperienza di superiore in Compagnia, a dire il vero, io non mi sono sempre comportato così, cioè facendo le necessarie consultazioni. E questa non è stata una cosa buona. Il mio governo come gesuita all’inizio aveva molti difetti. Quello era un tempo difficile per la Compagnia: era scomparsa una intera generazione di gesuiti. Per questo mi son trovato Provinciale ancora molto giovane.
Avevo 36 anni: una pazzia. Bisognava affrontare situazioni difficili, e io prendevo le mie decisioni in maniera brusca e personalista. Sì, devo aggiungere però una cosa: quando affido una cosa a una persona, mi fido totalmente di quella persona. Deve fare un errore davvero grande perché io la riprenda. Ma, nonostante questo, alla fine la gente si stanca del-l’autoritarismo. Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e a essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova.
Ecco, no, non sono stato certo come la Beata Imelda, ma non sono mai stato di destra. È stato il mio modo autoritario di prendere le decisioni a creare problemi”. “Dico queste cose come una esperienza di vita e per far capire quali sono i pericoli. Col tempo ho imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo anche attraverso i miei difetti e i miei peccati.
Così da arcivescovo di Buenos Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: ‘non si consulti troppo, e decida’. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I Concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione.
Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del Conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale”. Rimango sul tema della Chiesa e provo a capire che cosa significhi esattamente per Papa Francesco il “sentire con la Chiesa” di cui scrive san-t’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali.
Il Papa risponde senza esitazione partendo da un’i m m agine. “L’immagine della Chiesa che mi piace è quella del santo popolo fedele di Dio. È la definizione che uso spesso, ed è poi quella della Lumen gentium al numero 12. L’appartenenza a un popolo ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in questa dinamica popolare”. “Il popolo è soggetto.
E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina. Ecco, questo io intendo oggi come il “sentire con la Chiesa” di cui parla sant’I g n a-zio. Quando il dialogo tra la gente e i Vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi”.
“È come con Maria: se si vuol sapere chi è, si chiede ai teologi; se si vuol sapere come la si ama, bisogna chiederlo al popolo. A sua volta, Maria amò Gesù con cuore di popolo, come leggiamo nel Magnificat. Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del ‘sentire con la Chiesa’ sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica”.
Il Papa, dopo un momento di pausa, precisa in maniera secca, per evitare fraintendimenti: “E, ovviamente, bisogna star bene attenti a non pensare che questa infallibilitas di tutti i fedeli di cui sto parlando alla luce del Concilio sia una forma di populismo. No: è l’esperienza della “santa madre Chiesa gerarchica”, come la chiamava san-t’Ignazio, della Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del popolo di Dio”. “Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana. C’è una classe media della santità di cui tutti possiamo far parte, quella che di cui parla Malègue”.
Il Papa si sta riferendo a Joseph Malègue, uno scrittore francese a lui caro. In particolare alla sua trilogia incompiuta. Alcuni critici francesi lo definirono “il Proust cattolico”. “Io vedo la santità – p r o-segue il Papa – nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta.
Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con coraggio”.
“Questa Chiesa con la quale dobbiamo “sentire” è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto dipersoneselezionate.Nondobbiamoridurreilseno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità. E la Chiesa è Madre – prosegue -. La Chiesa è feconda, deve esserlo. Vedi, quando io mi accorgo di comportamenti negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che mi viene in mente è: “ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”.
Non sono né padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio, quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia, leggo una storia di vita, di fecondità”. Papa Benedetto XVI, annunciando la sua rinuncia al Pontificato, ha ritratto il mondo di oggi come soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede che richiedono vigore sia del corpo, sia dell’anima.
Chiedo al Papa, anche alla luce di ciò che mi ha appena detto: “Di che cosa la Chiesa ha più bisogno in questo momento storico? Sono necessarie riforme? Quali sono i suoi desideri sulla Chiesa dei prossimi anni? Quale Chiesa ‘sogna’?”. Papa Francesco, cogliendo l’incipit della mia domanda, comincia col dire: “Papa Benedetto ha fatto un atto di santità, di grandezza, di umiltà. È un uomo di Dio”, dimostrando un grande affetto e una enorme stima per il suo predecessore.
“Io vedo con chiarezza – prosegue – che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso”. “La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: ‘Gesù Cristo ti ha salvato!’.
E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il confessore, ad esempio,corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o troppo lasso. Nessuno dei due è misericordioso, perché nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente ‘questo non è peccato’ o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate”.
“Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi.Il popolo di Dio vuole pastori e nonfunzionari o chierici di Stato. (…)”.
“Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio”.
Raccolgo ciò che il Santo Padre sta dicendo e faccio riferimento al fatto che ci sono cristiani che vivono in situazioni non regolari per la Chiesa o comunque in situazioni complesse, cristiani che, in un modo o nell’altro, vivono ferite aperte. Penso a divorziati risposati, coppie omosessuali, altre situazioni difficili. Come fare una pastorale missionaria in questi casi? Su che cosa far leva?
Il Papa fa cenno di aver compreso che cosa intendo dire e risponde. “Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono ‘feriti sociali’ perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo.
Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile.
Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: ‘Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?’. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero del-l’uomo. Nella vita,Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta”.
“Questa è anche la grandezza della Confessione: il fatto di valutare caso per caso, e di poter discernere qual è la cosa migliore da fare per una persona che cerca Dio e la sua grazia. Il confessionale non è una sala di tortura, ma il luogo della misericordia” (…) Chiedo: “Quale deve essere il ruolo della donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile?”.
“È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del ‘machismo in gonnella’, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo.
La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. (…) ‘Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa”. (…) “Che cosa ha realizzato il Concilio Vaticano II? Che cosa è stato?”, gli chiedo.
“Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta”. (…) “Quel che ho detto a Rio ha un valore temporale. C’è infatti la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa.
Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi”. “Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi.
Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa”. (…) “Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primerea. Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo leggiamo nei Profeti. Dunque, Dio lo si incontra camminando, nel cammino.
E a questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. È relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale” (…) Dobbiamo essere ottimisti?
“A me non piace usare la parola ‘ottimismo’, perché dice un atteggiamento psicologico. Mi piace invece usare la parola ‘speranza ‘ secondo ciò che si legge nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei che citavo prima. I Padri hanno continuato a camminare, attraversando grandi difficoltà. E la speranza non delude, come leggiamo nella Lettera ai Romani. Pensa invece al primo indovinello della Turandot di Puccini’, mi chiede il Papa. (…)
Rimango colpito dalla citazione della Turandot per parlare del mistero della speranza. Vorrei capire meglio quali sono i riferimenti artistici e letterari di Papa Francesco. Gli ricordo che nel 2006 aveva detto che i grandi artisti sanno presentare con bellezza le realtà tragiche e dolorose della vita. Chiedo dunque quali siano gli artisti e gli scrittori che preferisce; se c’è qualcosa che li accomuna…
“Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È quella che si chiude con il verso Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso. Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro I Promessi Sposi tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto.
Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro: ‘Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti…’. Anche Gerard Manley Hopkins mi è piaciuto tanto”. “In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano. Ma anche Chagall con la sua Crocifissione bianca…”. “In musica amo Mozart, ovviamente. Quell’Et Incarnatus est della sua Missa in Do è insuperabile: ti porta a Dio! Amo Mozart eseguito da Clara Haskil. Mozart mi riempie: non posso pensarlo, devo sentirlo. Beethoven, mi piace ascoltarlo, ma prometeicamente. E l’interprete più prometeico per me è Furtwängler.
E poi le Passioni di Bach,. Il brano di Bach che amo tanto è l’Erbarme Dich, il pianto di Pietro della Passione secondo Matteo. Sublime. Poi, a un livello diverso, non intimo allo stesso modo, amo Wagner. Mi piace ascoltarlo, ma non sempre. La Tetralogia dell’Anello eseguita da Furtwängler alla Scala nel ’50 è la cosa per me migliore. Ma anche il Parsifal eseguito nel ’62 da Knappertsbusch”..
“Dovremmo anche parlare del cinema. La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e AldoFabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori che ci portavano spesso al cinema”.
“Comunque in generale io amo gli artisti tragici, specialmente i più classici. C’è una bella definizione che Cervantes pone sulla bocca del baccelliere Carrasco per fare l’elogio della storia di Don Chisciotte: “i fanciulli l’hanno tra le mani, i giovani la leggono, gli adulti la intendono, i vecchi ne fanno l’elogio”. Questa per me può essere una buona definizione per i classici”. (…)
Alla fine chiedo al Papa di raccontare la sua esperienza. “È stata una cosa un po’ rischiosa. Dovevo fare in modo che i miei alunni studiassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di leggere García Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa, e durante le lezioni io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi. Ovviamente i giovani volevano leggere le opere letterarie più “piccanti”, contemporanee come La casa da infiel, o classiche come La Celestina di Fernando de Rojas.
Ma leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e passavano ad altri autori. E per me è stata una grande esperienza.(…) Alla fine ho deciso di far leggere a Borges due racconti scritti dai miei ragazzi. Conoscevo la sua segretaria, che era stata la mia professoressa di pianoforte. A Borges piacquero moltissimo. E allora lui propose di scrivere l’introduzione a una raccolta”.