Per promuovere la sostenibilità bisogna essere radicali
CORRIERE DELLA SERA – OPINIONI
di Mario Calderini
Ricorderemo questi mesi come quelli nei quali è diventato evidente, su scala globale, quale sia il prezzo vero ed ultimo della non sostenibilità: lo sgretolamento delle istituzioni, lo svuotamento culturale e valoriale delle stesse e le conseguenti imprevedibili trasformazioni sociali e del nostro vivere civile. Indugio su questa riflessione dopo aver ascoltato Enrico Giovannini presso la Fondazione Feltrinelli, e penso che benché avessimo previsto un conto salatissimo per la sostenibilità mancata, lo avevamo immaginato differito nel tempo e non certo in questa forma così improvvisa a violenta. E invece il frutto avvelenato di un modello di crescita non sostenibile si presenta oggi ed improvvisamente in forma di diseguaglianza, esclusione e rabbia sociale. Da questo nasce l’urgenza e l’imperativo di ridefinire i termini dell’agenda di sostenibilità, passando dalla fase dell’advocacy e della narrativa alla fase della radicalità. Radicalità significa non accondiscendere, in campo finanziario o imprenditoriale, ad interpretazioni di maniera del concetto di sostenibilità, relegandolo ad una dimensione di marginalità e lateralità. Radicalità significa per imprenditori, investitori e filantropi riconoscere l’insostenibilità di un modello nel quale si allocano risorse proprio a quelle attività che generano squilibri e diseguaglianza per poi tentare di mitigare le conseguenze delle stesse con azioni compensative di supposta responsabilità. Radicalità significa anche non confondere le ovvie esternalità positive che ogni investimento in un’impresa ben gestita è in grado di generare, con un impatto sociale o ambientale intenzionalmente perseguito e raggiunto.
La responsabilità sociale d’impresa genericamente intesa non è radicale, così come non lo è la finanza che si compiace nell’aggettivarsi etica, sociale, sostenibile o verde. Non è radicale quell’esercizietto rendicontativo che è il bilancio sociale o ambientale, non è radicale il richiamo ossessivo e consolatorio ai criteri ESG. Tutto virtuoso, importante ed apprezzabile, in quanto in linea con i fondamentali obiettivi di Agenda 2030, ma privo della radicale capacità trasformativa che è oggi necessaria per contenere la deriva sociale e istituzionale. Ed è proprio la capacità trasformativa il segno che deve qualificare le azioni che ambiscono ad iscriversi in un’agenda di sostenibilità robusta, concreta e strutturata. Capacità trasformativa che si declina nella ricerca di soluzioni a problemi sociali emergenti con modelli di intervento caratterizzati da intenzionalità, misurabilità e addizionalità. Intenzionalità significa incorporare inscindibilmente la ricerca della soluzione nel modello di intervento o di business, eventualmente accettando consapevolmente di sacrificare parte del risultato economico, misurabilità significa saper dare conto della soluzione raggiunta, addizionalità significa farlo in aree di intervento nelle quali i normali meccanismi di mercato non funzionano appropriatamente. Se è per certi versi scontata l’applicabilità di questi criteri nel terzo settore, molto più selettiva è l’applicazione degli stessi alle forme di impresa o di attività finanziaria che operano nei settori tradizionali.
La radicalità consiste, a mio parere, nel distinguere selettivamente sulla base di questi criteri, non per separare buoni e cattivi o giusti e sbagliati, ma semplicemente per dare i nomi giusti alle cose giuste. Perché se tutto è sostenibilità, nulla è sostenibilità, se tutto è responsabilità d’impresa, nulla è responsabilità di impresa, se tutto è impatto sociale, nulla è impatto sociale. Proprio il settore finanziario è oggi un esempio plastico della possibile deriva strumentale che può assumere l’adesione massiva alla narrativa della sostenibilità e dell’impatto sociale cui stiamo assistendo. Il 2018 sarà ricordato come l’anno della finanza ad impatto sociale, per numero e rilevanza delle iniziative. Una buona notizia dunque, perché se intendiamo l’impact investing come l’insieme degli strumenti definiti dai tre criteri sopra descritti, significa che si stanno liberando risorse al servizio di una grande azione trasformativa, sostenendo imprenditori capaci di trovare soluzioni innovative, concrete e di grande scala alla diseguaglianza, all’esclusione e al disagio. Una pessima notizia invece, se questa proliferazione si traduce semplicemente in impact-washing, una vuota ri-etichettatura di strumenti finanziari del tutto sconnessi da bisogni e problemi reali e dalle relative soluzioni. Perché, le soluzioni, in fondo, sono l’unica cosa che veramente conta.
*School of Management Politecnico Milano
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!