Il politicamente corretto
(Di Stefano Bartezzaghi)
Sono parole non inaudite, ma oggi neppure banali. Che la verità dottrinaria escluda l’ipocrisia dal linguaggio dei cristiani non è materia di dubbio; ma altrettanto indubbio è che esista anche, nella pratica, una forma specificamente cristiana di ipocrisia, riassumibile nell’altro detto: «Predicare bene, razzolare male». Ed è questo il bersaglio plausibile del pronunciamento papale.
Insomma, siamo esortati a parlare chiaro. Un’esortazione a cui però gli ipocriti non esiteranno a plaudire: il concetto di chiarezza tanto chiaro e inequivoco, infatti, non è. I guazzabugli italiani ci hanno per esempio abituato a una concezione per cui la chiarezza consisterebbe nel dire pane al pane e negro al negro, nel celebrare con accanimento da amateur le liturgie indisturbate del turpiloquio in pubblico, nel respingere con ribrezzo ogni distinguo. È invece proprio un distinguo quello che Gesù compie, aggirando con sottigliezza la trappola verbale farisea: «Date quel che è di Cesare a Cesare, quel che è di Dio a Dio», con una separazione di àmbiti che ancora oggi dovrebbe risultare del tutto pertinente. Non si può insomma pensare che Francesco ci chieda di esprimerci come usa Beppe Grillo (chi più «chiaro» di quest’ultimo, in quest’altra accezione?). Francesco parla di «socialmente educato» e viene ascoltato come se stesse parlando del «politicamente corretto», che in Italia è detestato da chi ammette una sola specie di tabu, che è anche la propria: il tabu di avere tabu. Ma «politicamente corretto» non significa, di per sé, ipocrita.
Significa innanzitutto non usare espressioni che possano offendere altre persone, specie se direttamente riferite a loro. «Puttana» è un insulto; «prostituta» un nome appropriato; «escort» può essere un eufemismo per «prostituta». Chi usa il primo termine intende offendere, chi usa il terzo intende minimizzare. L’ipocrisia, che il Papa descrive come «il linguaggio della corruzione», non è evitare di insultare le prostitute: è chiamarle «amiche». Questo, ci ricorda il linguista Massimo Arcangeli, accadeva già nell’antichità: nella sua Vita di Solone, Plutarco narra che il Legislatore ateniese praticava l’arte dell’attenuazione, chiamando proprio «etère» (amiche, compagne) le prostitute.
L’ipocrisia è il linguaggio che tronca e sopisce, sfuma e smorza. Il politicamente corretto ci cade quando degenera in ridicole manfrine, peraltro spesso sgradite alle medesime categorie che ne dovrebbero essere protette: i non vedenti preferiscono perlopiù essere chiamati «ciechi», e «sordi» i non udenti. Ma prima di farsi beffe della goffaggine di dizioni come «diversamente abili» andrà pur considerato che dove il linguaggio sfiora un tabu, lì nasce, per chi se lo ponga, un problema. È giusto evitare denominazioni sgradite all’interessato? Ci si può immaginare che questo tipo di scrupolo «socialmente educato» non dia fastidio a un papa che, per quel che lo riguarda e in lampante chiarezza, preferisce presentarsi come vescovo.
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